CORIGLIANO: il sentimento e la storia

Ovvero le partenze e “la restanza”, e una sfida per il futuro.

E anch’io ad un certo punto sono partito da Corigliano. Era il 1970. Una partenza voluta, scelta. Come scrissi altrove e come ricordava l’amico Pasquale Bennardo in una bella poesia che ha voluto dedicarmi. Nelle lunghe passeggiate sul Viale delle Rimembranze, il mio mantra era:” Qui la meta è partire” citando Ungaretti.

Si sa quando si è giovani si è claustrofobici, insofferenti verso le convenzioni, verso il paese appunto; poi naturalmente col passare del tempo le cose cambiano. Alcune motivazioni vengono meno, insomma in qualche modo si torna indietro. Ognuno di noi quando parte, quando sceglie di partire ha le sue motivazioni, fa le sue scelte.

Tuttavia “partire, e restare sono due poli della storia dell’umanità” come dice l’antropologo Vito Teti che aggiunge:”…non siamo sempre tentati dalla partenza e dalla diaspora perché meridionali, ma perché Sapiens. E l’atto di partire, di errare ma anche di restare – purché sempre come relazione con un luogo, con un punto di partenza- ci appartengono da sempre, da quando in forma di tribù di cacciatori e raccoglitori seguivamo le linee delle prede e delle stagioni e percorrevamo già la Terra.”

Le partenze come la mia che pure ce ne sono state nel corso degli anni non hanno determinato grossi sconvolgimenti, lo dico non per alleggerire un senso di colpa che non ho. Le cause dello spopolamento, come vedremo sono state altre. In ogni caso io sono partito ma sono anche rimasto con i pensieri, i sentimenti, la memoria, le radici.

 Torniamo pertanto a Corigliano, a quella di quegli anni. Era una cittadina che in qualche modo viveva la sua vita resa decisamente migliore, più vivibile da quello che venne chiamato “il boom economico”, rispetto agli anni ’50 nell’immediato dopoguerra che ho conosciuto.

L’agrumicultura viveva un periodo positivo, distribuiva ricchezza, arrivavano i “compratori” da Reggio Calabria o anche dalla Sicilia e compravano a prezzi onesti il prodotto che poi esportavano, commercializzavano fuori. Piccoli e medi produttori vivevano più che dignitosamente. Nel frattempo, era anche finita l’emigrazione verso l’estero che aveva visto partire tanti giovani ma che adesso erano rientrati, la maggior parte, e con le loro rimesse avevano contribuito alla ricchezza del paese. Avevano facilitato se non stimolato e permesso la costruzione di nuovi quartieri come l’Ariella e come l’Acquedotto, che avevano dato un po’ di respiro alla situazione abitativa. Certo si incominciavano ad avvertire i primi sintomi di un cambiamento, di una ricerca di comodità abitative e di viabilità che l’urbanistica medioevale del paese non poteva soddisfare. Il benessere aveva fatto nascere nuove esigenze, molte vere altre presunte o incentivate da chi aveva altri interessi. Certo le abitazioni non avevano i riscaldamenti, a parte pochissime eccezioni, i parcheggi mancavano, le auto “non potevano arrivare sotto casa” come si diceva. Non c’erano spazi adeguati a far nascere nuovi grandi supermercati. Problemi e nuove esigenze che in parte si potevano risolvere, ma che scelte politiche ben orientate preferirono non affrontare e invece facilitarono lo spopolamento del paese verso lo Scalo o Schiavonea che essendo in pianura e con tanta disponibilità di terreni potevano soddisfare. Anche se si fecero tante “carte false”, tanti abusi che sono sotto gli occhi di tutti.

Ma dopo questa lunga digressione resa necessaria per completare il quadro, torniamo a parlare dello spopolamento del paese. Lo stesso, come abbiamo visto non è avvenuto perché gli abitanti hanno abbandonato le loro case per cercare fortuna altrove. Lo spopolamento è avvenuto perché gli stessi si sono spostati di pochi chilometri in case nuove probabilmente più confortevoli e più vicini a scuole, negozi e uffici che nel frattempo con scelte e motivazioni a volte discutibili furono spostati verso la pianura, anticipando spesso le esigenze dei cittadini per costringerli surrettiziamente a spostarsi.

E intanto siamo già arrivati alla metà degli anni ’80.  I più sensibili tra i cittadini avevano già segnalato con modalità diverse quello che stava accadendo denunciando danni irreversibili per il paese.

Il prof. Franzè aveva coniato due belle espressioni e cioè “la cultura dei massari” per stigmatizzare la superficialità e la mala fede di un certo modo di fare e “la sagra dei cullurielli” per dire come ormai anche i cittadini si stavano abituando, spesso in buona fede, ad una certa mediocrità culturale madre di tutte le sventure che incominciavano ad affliggere Corigliano. Proprio sul “Il Serratore” un altro fine intellettuale che amava il paese, l’amico avvocato Franco Scarcella denunciava con sottile e tagliente ironia le stesse malefatte.

Io stesso, più modestamente, con una lettera aperta dal titolo “Scomparire per inerzia?”. denunciavo nel lontano gennaio del 1989 sempre su “Il Serratore” n° 5, quello che stava succedendo e auspicavo un ravvedimento da parte di chi avrebbe ancora potuto invertire il processo di spopolamento. Prima di me nel 1984 sul secondo numero della rivista “La tela del ragno” un altro caro amico e anche lui fine intellettuale, nonché innamorato del paese, il prof. Armando Gammetta da un’altra visuale analizzava la situazione e stimolava una rinascita di Corigliano con un articolo intitolato. “il caso Corigliano. Un bruco che non diventa farfalla”. Titolo quanto mai premonitore.

Tutte queste voci purtroppo rimasero “vox clamantis”.

E siamo arrivati all’oggi. La realtà di degrado in cui versa il paese è sotto gli occhi di tutti. Degrado che naturalmente è figlio soprattutto dello spopolamento. Ammirevoli e a volte commoventi iniziative, negli ultimi anni da parte di associazioni o piccoli gruppi di cittadini hanno tentato meritoriamente di fare qualcosa, di smuovere le acque. È mancata purtroppo un’azione corale ri-fondativa.

Tutti gli sforzi, per quanto lodevoli e meritori se non sono incanalati a ricostruire il senso di comunità accanto al ripensamento dei servizi, degli spazi, a “stipulare un nuovo patto sociale e valoriale” tra chi è rimasto, chi potrà tornare e chi arriverà, servono a poco.

Deve quindi necessariamente cambiare l’approccio verso queste problematiche se si vuole incominciare a dare una svolta.

Intanto, come banalmente si dice per risolvere un problema bisogna ben individuarlo e riconoscerlo come tale. Poi fissare degli obiettivi concreti, condivisi, e raggiungibili con tempistiche certe. Insomma fare dei progetti affidati a professionisti seri e competenti su “input” condivisi e partecipati dalle forze politiche (senza invidie e interessi di parte) e soprattutto dalle forze sociali in rappresentanza dei vari interessi di categorie (commercianti, professionisti, impresari).

Occorre bensì anche un approccio meno “materialista” e più sociale, più spirituale più antropologico per alcuni aspetti.

E per citare ancora il prof. Vito Teti: …”la Calabria (e dico io Corigliano) ha bisogno di memoria e di fare i conti con la propria tradizione culturale…il vuoto di oggi dovrebbe fare i conti con il pieno di ieri. Non per mitizzare un buon tempo antico mai esistito, ma per guardare avanti, consapevoli di avere alle spalle un passato che va riconosciuto e recuperato con le sue potenzialità inespresse e negate dalla cultura dominante e omologata”.

Mi riferisco in particolare all’attivismo politico e culturale, soprattutto giovanile che caratterizzò quegli anni. La nascita di “Circoli culturali” come venivano chiamati. Io personalmente ne frequentavo due, oltre alla sezione della FGCI dove mi ero iscritto nel 1961. Nacquero alcuni “giornalini” periodici, spesso emanazione di questi circoli. Le lunghe riunioni in una stanza semibuia e fredda piena di fumo di sigarette. L’affitto si pagava con l’autotassazione. Ne scaturivano sempre discussioni interessantissime e c’era sempre qualcosa da imparare. Intanto l’importanza dello stare insieme, sempre generatrice di idee positive. Intanto c’era fermento, confronto. E se posso dire: si faceva cultura, si tentava di fare cultura.

Riprendendo il filo del discorso, sempre il prof. Teti: “Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. … senza concedere spazio ad autocompiacimento ed autoesaltazione, ma neppure ad afflizione e disperazione.”

Ecco allora alcune idee di base, alcune linee guida o semplicemente alcuni stimoli per cominciare seriamente a ripensare alla rinascita del paese, senza cedere alla tentazione di scimmiottare modelli di “rifondazione” di un paese come la vendita di “una casa ad un euro” o scemenze simili. Occorre insediare una sorta di “stati generali” finalizzati a portare avanti, una volta individuate, tutte le azioni necessarie per riqualificare il paese, per renderlo vivibile senza voli pindarici senza illusioni, senza sogni utopistici e irrealizzabili, ma con concretezza, facendo anche scelte impopolari e toccando qualche interesse. È un lavoro che richiede forte assunzione di responsabilità capacità di coordinamento e una forte “leadership”.

Non facciamoci illusioni, per cambiare le cose in meglio non credo che esistano altre vie, altre soluzioni.

Naturalmente parallelamente si devono creare le condizioni politiche idonee, in poche parole, secondo me il prossimo sindaco deve essere di Corigliano (Rossano se la passa decisamente meglio) e deve credere nel progetto e farlo diventare prioritario nelle scelte.

Sarà un lavoro immane, non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, ripeto, non facciamoci illusioni, tutto il resto che ben venga ma sono “pannicelli caldi”.

Qualcuno che, al contrario di me, vive da vicino la realtà del paese e che conosce bene le cose di cui ho parlato dovrebbe farsi promotore di azioni concrete con il coinvolgimento di più persone di più forze sociali e politiche possibili e rappresentanti di istanze categoriali, come dicevo sopra.

Per me, per l’amore che nutro verso Corigliano, sarebbe già un successo se su questo articolo si aprisse un dibattito, qualunque poi ne sia il risultato. Troppe volte, abbiamo visto, cadere nel vuoto proposte che avrebbero potuto cambiare in meglio le cose o peggio assumere comportamenti sofistici, tanto cari a taluni, e atteggiamenti “gattopardeschi” nel voler cambiare tutto per non cambiare nulla.

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